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lunedì 18 luglio 2016

Le Società Benefit: la risposta legislativa all’esigenza del mercato di fare business sostenibile e garantito contro le frodi?

di Susanna Pedretti (Avvocato)



Da più di sei mesi – precisamente dall'entrata in vigore della Legge di Stabilità 2016 – la legislazione italiana contempla una nuova figura societaria, alla cui base vi è un’idea potente, e secondo voci autorevoli (tra cui il Premio Nobel per l’economia 2013 Robert J. Shiller) anche estremamente profittevole: quella di coniugare la prospettiva lucrativa propria di qualsiasi azienda commerciale con uno o più obiettivi di “beneficio comune”, da intendersi, come ci dice la Legge, come il perseguimento, nell'esercizio dell'attività economica, di uno o più effetti positivi, o la riduzione degli effetti negativi, sulle persone, sulla comunità, su territorio e ambiente, su beni e attività culturali e sociali, su enti e associazioni e su altri portatori d’interessi, quali – ancora più alla lontana – i soggetti coinvolti, direttamente o indirettamente, dall'attività della società quali lavoratori, clienti, fornitori, finanziatori, creditori, pubblica amministrazione e società civile.

Le Società Benefit (“SB”) – così si chiamano – sono ancora un panorama poco conosciuto in Italia, che è infatti il primo paese dell’UE ad aver accolto e codificato questa innovativa figura, sulla scorta dell’esperienza economica e giuridica diffusasi a partire dalla seconda metà dello scorso decennio in USA.

Parallelamente, val la pena di fare qualche considerazione sull'ormai significativo numero di operatori economici che hanno integrato i propri obbiettivi con i cosiddetti elementi “ESG” (ambientali, sociali e di governance), o anche – saltando di palo in frasca ma non troppo- sull'impegno economico richiesto alle aziende per assicurarsi – chiamiamola così – la “compliance”.

                 

Si potrebbe osservare come i tentativi di combinare la redditività con l’attenzione all'ambiente, al sociale, e al “beneficio comune” siano antichi quanto antico è il concetto di business, ancorché – è ben vero – siano stati talvolta osservati con l’occhio scettico dedicato a tutto ciò che è “ibrido”, o di chi si domanda se le “non financial information” tra cui quelle “di sostenibilità” siano davvero utili, siano “di marketing”, o addirittura fraudolente: la frode di chi si pone sul mercato come “green”, ma non lo è affatto, ha trovato infatti ormai una propria definizione nella letteratura economica (“green washing”, appunto).

Da qualunque prospettiva la si veda, è innegabile comunque come la spinta evolutiva del mercato sia nella direzione della trasparenza, della sostenibilità nel tempo, dell’attenzione agli aspetti etici del business: siano essi veri o solo pretesi per esigenze di “immagine”, il business deve oggi essere dotato di un bell'aspetto per poter essere appetibile tanto per gli investitori quanto anche per i consumatori, e in particolare i giovani.

Insomma, profittabilità o meno, nel breve o nel lungo o nel lunghissimo periodo, fatto sta che le Società Benefit si pongono sul mercato con la garanzia dell’impegno dell’azienda di perseguire e documentare in modo articolato la propria attenzione verso tutti gli stakeholders.

E’ questa la principale ragione per la quale possiamo immaginare come l’adozione della forma di Società Benefit – allo stato sprovvista di alcun beneficio fiscale, sgravio o agevolazione – rappresenti una buona garanzia “anti-frode”.

E’ nel DNA stesso delle Società Benefit il perseguimento di due finalità che sono poste sullo stesso piano: da una parte vi è lo svolgimento di una attività economica, volta a generare un utile per gli shareholders (e quindi la valutazione delle performance economico-finanziarie), e dell’altra il perseguimento di una o più finalità di beneficio comune, indicate nello statuto sociale, bilanciando l’interesse dei soci con quelli degli altri stakeholder.

E’ stata confermata più volte anche su questo blog l’importanza dell’ambiente di lavoro nella determinazione del livello del rischio operativo di frode: si è detto infatti che un ambiente di lavoro positivo, sereno e corretto in cui il lavoratore non si senta abusato, sfruttato o semplicemente ignorato, è già una buona garanzia di successo nella lotta delle frodi aziendali interne.

Un ambiente lavorativo improntato sull'etica è già in sé un metodo di prevenzione poiché va a incidere sui processi di razionalizzazione del potenziale frodatore.

Sul punto, le Società Benefit si assumono l’impegno – tra gli altri – di valutare l’impatto sui lavoratori, e – più nello specifico – valutando le relazioni con i dipendenti e i collaboratori in termini di retribuzioni e benefit, formazione e opportunità di crescita personale, qualità dell'ambiente di lavoro, comunicazione interna, flessibilità e sicurezza del lavoro.

Ma le Società Benefit dovrebbero spingersi anche più lontano: integrando nei propri processi decisionali e strategici la valutazione dell’impatto sugli altri portatori d'interesse, attraverso un’analisi delle relazioni della società con i propri fornitori, con il territorio e le comunità, ne conseguirebbe anche una buona mitigazione del rischio operativo di outsourcing, nell’eventualità che le società conducano in modo etico il proprio business “diretto”, non interessandosi a sufficienza di quelle attività d’impresa affidate alle terze parti.

Da ultimo, si evidenzia come la diffusione delle Società Benefit, in presenza di efficaci standard di valutazione esterni, dovrebbe aiutare a combattere il citato fenomeno del green washing: non a caso la Legge Italiana assoggetta il comportamento delle Società Benefit che non perseguono realmente le finalità statutarie di beneficio comune alle disposizioni in materia di pubblicità ingannevole e alle disposizioni del codice del consumo, affidando pieni poteri all'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato.

Non resta che stare a vedere se, ora che è stato predisposto il tessuto normativo, l’idea di un mercato basato su pratiche sostenibili e socialmente responsabili riuscirà concretamente ad affermarsi; ragionevolmente possiamo sin d’ora aspettarci che qualificarsi come Società Benefit non possa ridursi a una mera strategia di marketing, o a uno slogan d’impatto, visto l’impegno richiesto a dette società e all'assenza di incentivi fiscali.



Le Società Benefit: la risposta legislativa all’esigenza del mercato di fare business sostenibile e garantito contro le frodi?

di Susanna Pedretti (Avvocato)


Da più di sei mesi – precisamente dall'entrata in vigore della Legge di Stabilità 2016  la legislazione italiana contempla una nuova figura societaria, alla cui base vi è un’idea potente, e secondo voci autorevoli (tra cui il Premio Nobel per l’economia 2013 Robert J. Shiller) anche estremamente profittevole: quella di coniugare la prospettiva lucrativa propria di qualsiasi azienda commerciale con uno o più obiettivi di “beneficio comune”, da intendersi, come ci dice la Legge, come il perseguimento, nell'esercizio dell'attività economica, di uno o più effetti positivi, o la riduzione degli effetti negativi, sulle persone, sulla comunità, su territorio e ambiente, su beni e attività culturali e sociali, su enti e associazioni e su altri portatori d’interessi, quali – ancora più alla lontana  i soggetti coinvolti, direttamente o indirettamente, dall'attività della società quali lavoratori, clienti, fornitori, finanziatori, creditori, pubblica amministrazione e società civile.

LSocietà Benefit (“SB”) – così si chiamano  sono ancora un panorama poco conosciuto in Italia, che è infatti il primo paese dell’UE ad aver accolto e codificato questa innovativa figura, sulla scorta dell’esperienza economica e giuridica diffusasi a partire dalla seconda metà dello scorso decennio in USA.
Parallelamente, val la pena di fare qualche considerazione sull'ormai significativo numero di operatori economici che hanno integrato i propri obbiettivi con i cosiddetti elementi “ESG” (ambientali, sociali e di governance), o anche – saltando di palo in frasca ma non troppo- sull'impegno economico richiesto alle aziende per assicurarsi – chiamiamola così  la “compliance”.


Si potrebbe osservare come i tentativi di combinare la redditività con l’attenzione all'ambiente, al sociale, e al “beneficio comune” siano antichi quanto antico è il concetto di business, ancorché – è ben vero – siano stati talvolta osservati con l’occhio scettico dedicato a tutto ciò che è “ibrido”, o di chi si domanda se le “non financial information” tra cui quelle “di sostenibilità” siano davvero utili, siano “di marketing”, o addirittura fraudolente: la frode di chi si pone sul mercato come “green”, ma non lo è affatto, ha trovato infatti ormai una propria definizione nella letteratura economica (“green washing”, appunto).

Da qualunque prospettiva la si veda, è innegabile comunque come la spinta evolutiva del mercato sia nella direzione della trasparenza, della sostenibilità nel tempo, dell’attenzione agli aspetti etici del business: siano essi veri o solo pretesi per esigenze di “immagine”, il business deve oggi essere dotato di un bell'aspetto per poter essere appetibile tanto per gli investitori quanto anche per i consumatori, e in particolare i giovani.

Insomma, profittabilità o meno, nel breve o nel lungo o nel lunghissimo periodo, fatto sta che le Società Benefit si pongono sul mercato con la garanzia dell’impegno dell’azienda di perseguire e documentare in modo articolato la propria attenzione verso tutti gli stakeholders.
E’ questa la principale ragione per la quale possiamo immaginare come l’adozione della forma di Società Benefit – allo stato sprovvista di alcun beneficio fiscale, sgravio o agevolazione  rappresenti una buona garanzia “anti-frode”.

E’ nel DNA stesso delle Società Benefit il perseguimento di due finalità che sono poste sullo stesso piano: da una parte vi è lo svolgimento di una attività economica, volta a generare un utile per gli shareholders (e quindi la valutazione delle performance economico-finanziarie), e dell’altra il perseguimento di una o più finalità di beneficio comune, indicate nello statuto sociale, bilanciando l’interesse dei soci con quelli degli altri stakeholder.

E’ stata confermata più volte anche su questo blog l’importanza dell’ambiente di lavoro nella determinazione del livello del rischio operativo di frode: si è detto infatti che un ambiente di lavoro positivo, sereno e corretto in cui il lavoratore non si senta abusato, sfruttato o semplicemente ignorato, è già una buona garanzia di successo nella lotta delle frodi aziendali interne.
Un ambiente lavorativo improntato sull'etica è già in sé un metodo di prevenzione poiché va a incidere sui processi di razionalizzazione del potenziale frodatore.

Sul punto, le Società Benefit si assumono l’impegno – tra gli altri  di valutare l’impatto sui lavoratori, e – più nello specifico  valutando le relazioni con i dipendenti e i collaboratori in termini di retribuzioni e benefit, formazione e opportunità di crescita personale, qualità dell'ambiente di lavoro, comunicazione interna, flessibilità e sicurezza del lavoro.

Ma le Società Benefit dovrebbero spingersi anche più lontano: integrando nei propri processi decisionali e strategici la valutazione dell’impatto sugli altri portatori d'interesse, attraverso un’analisi delle relazioni della società con i propri fornitori, con il territorio e le comunità, ne conseguirebbe anche una buona mitigazione del rischio operativo di outsourcing, nell’eventualità che le società conducano in modo etico il proprio business “diretto”, non interessandosi a sufficienza di quelle attività d’impresa affidate alle terze parti.

Da ultimo, si evidenzia come la diffusione delle Società Benefit, in presenza di efficaci standard di valutazione esterni, dovrebbe aiutare a combattere il citato fenomeno del green washing: non a caso la Legge Italiana assoggetta il comportamento delle Società Benefit che non perseguono realmente le finalità statutarie di beneficio comune alle disposizioni in materia di pubblicità ingannevole e alle disposizioni del codice del consumo, affidando pieni poteri all'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato.

Non resta che stare a vedere se, ora che è stato predisposto il tessuto normativo, l’idea di un mercato basato su pratiche sostenibili e socialmente responsabili riuscirà concretamente ad affermarsi; ragionevolmente possiamo sin d’ora aspettarci che qualificarsi come Società Benefit non possa ridursi a una mera strategia di marketing, o a uno slogan d’impatto, visto l’impegno richiesto a dette società e all'assenza di incentivi fiscali. 


giovedì 7 luglio 2016

Il cloud: una miniera d'oro per gli investigatori digitali

Ormai da qualche anno i casi di criminalità economico-finanziaria, come di altra natura, si risolvono anche (se non soprattutto) grazie all'analisi dei dati e delle informazioni archiviate sui vari dispositivi informatici e sul cloud.


L'ultima sfida per gli investigatori digitali è proprio quella di analizzare con strumenti forensi l'ambiente virtuale, indefinito e illimitato, chiamato "cloud".
In buona sostanza il cluod è un ambiente messo a disposizione sulla rete internet da un provider nel quale l'utente, attraverso un account personale accessibile con password, può archiviare, trasmettere, elaborare o nascondere informazioni di qualsiasi genere e dimensione.

Oltre alle difficoltà di accesso a questi ambienti virtuali, l'investigatore digitale deve fare i conti con gli impedimenti legali e burocratici che limitano i suoi poteri d'indagine sui server ubicati in territori di altre giurisdizioni, rendendo altresì onerosa l'attività tecnica.

La battaglia tuttavia non è persa!
Infatti a disposizione degli investigatori digitali ci sono molteplici sistemi hardware e software in grado di fornire servizi leciti e tempestivi di accesso, estrazione, conservazione e analisi di questi archivi di file.
E ciò è possibile anche con riferimento ai contenuti dei vari social network, quali Facebook, Twitter, Instagram e Kik.

Non si ritiene di entrare nel dettaglio, ma l'accesso agli archivi cloud o ai profili personali sui social media avviene grazie all'analisi degli stessi dispositivi utilizzati per accedervi. Naturalmente ciò è possibile in un contesto di indagini penali in cui è possibile risalire alle credenziali e alle altre informazioni rilevanti contenute nei dispositivi, anche telefonici, grazie ad un'attività d'indagine informatica altamente specializzata.


venerdì 1 luglio 2016

Mario Draghi risponde ad AssoTAG (l'Associazione dei CT delle Procure)

Il Presidente di AssoTAG (Associazione Italiana dei Periti e dei Consulenti Tecnici nominati dall'Autorità Giudiziaria), Ing. Alfonso SCARANO, ha informato gli amministratori del blog che lo scorso 28 giugno 2016 il Presidente della Banca Centrale Europea, Prof. Mario Draghi, ha risposto alla lettera aperta a lui indirizzata sui rischi insiti nei derivati finanziari che non sono stati analizzati dall’attuale procedura di "Asset Quality Review".

Ing. Alfonso Scarano (Presidente AssoTAG)

Come i lettori più affezionati ormai sanno, il blog ha da sempre seguito l'attività associativa di AssoTAG, divulgandone le iniziative e le battaglie intraprese.
In particolare, il 16 febbraio scorso, l' Ing. Scarano, in qualità di Presidente di AssoTAG ha indirizzato all'attenzione di Mario Draghi la seguente lettera aperta:

Gentile Prof. Mario Draghi,
come analisti finanziari, operatori e professionisti del settore bancario e finanziario, desideriamo sollecitare l’attenzione Sua e dell’Istituzione che rappresenta sulla questione, ormai evidente, che nelle banche occorra fare chiarezza sui rischi insiti nei derivati finanziari che non sono stati puntualmente analizzati dall’attuale procedura di Asset Quality Review.

Certamente una banca può soffrire, anche drammaticamente, sia per causa di eccessi di crediti in sofferenza sia per prodotti derivati finanziari che producano perdite.

Dal punto di vista tecnico appare incomprensibile l’attuale discriminazione di trattamento tra la puntuale analisi dei rischi del credito commerciale da un lato e, dall’altro, la mancata puntuale analisi del rischio insito nei derivati finanziari in possesso delle banche, in particolare quelli di Classe 3.

Un'analisi dedicata a prodotti derivati e attività di livello 3 è resa anche attuale e necessaria per una verifica della normativa entrata recentemente in vigore sulla valutazione prudente di tali prodotti. E' infatti della massima importanza verificare se il capitale effettivamente accantonato dalle banche a fronte della possibile valutazione errata di tali attività finanziarie sia sufficiente ad assorbire le rettifiche di valore che effettivamente potrebbero verificarsi in caso di stress.

Emerge anche l’esigenza di un riferimento di modelli di valutazione che vengano dettati dall’autorità di controllo e non siano lasciati alla auto-valutazione interna della banca.

L’opportunità di una analisi del rischio dei derivati va a beneficio del mercato e del sistema bancario europeo, in modo che non diventi preda di incontrollabili forze speculative.

Bene se tale lacuna verrà colmata per impulso e sostegno dalla BCE, di concerto con le istituzioni coinvolte, con una opportuna e urgente analisi sul rischio dei derivati in possesso delle maggiori banche.

Questa analisi diventa anche più urgente per le nuove fattispecie configuratesi con il recente “bail-in”, per le quali sono resi solidali nel rischio con gli azionisti anche gli obbligazionisti subordinati e altri soggetti creditori, fino ad arrivare addirittura ai correntisti.

Rimanendo in attesa di un’azione concreta da parte delle Autorità di Controllo su queste delicate questioni, porgo cordiali saluti

ing. Alfonso Scarano 
Presidente AssoTAG - Associazione Italiana dei Periti e dei Consulenti Tecnici nominati dall'Autorità Giudiziaria.



Prof. Mario Draghi - Presidente della Banca Centrale Europea

In data 28 giugno 2016, Mario Draghi, per il tramite del suo Capo Divisione della Direzione Generale Comunicazione, dott.sa Valérie Saintot, ha risposto:

Egregio Ingegner Scarano,

con riferimento alla Sua e-mail del 16 febbraio, La informiamo di aver preso nota delle Sue considerazioni e ci scusiamo per il ritardo della risposta.

La vigilanza bancaria della Banca Centrale Europea (BCE) esamina costantemente la necessità di azioni correttive derivanti dalla valutazione approfondita del 2014, al fine di assicurare una valutazione prudente delle attività, ivi comprese quelle valutate al fair value sulla base di input non osservabili (cosiddette attività di livello 3).

Per gli enti significativi sottoposti alla vigilanza diretta della BCE, la valutazione dei rischi connessi alla detenzione di quote rilevanti di attività di livello 3 valutate al fair value rientra nel processo annuale di revisione e valutazione prudenziale. Tali rischi vengono tenuti sotto osservazione da parte dei Gruppi di vigilanza congiunti nell’ambito della loro ordinaria attività di vigilanza.

Con i più distinti saluti,

Valérie Saintot
Capo Divisione
Outreach Division
Direzione Generale Comunicazione

BANCA CENTRALE EUROPEA
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